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Pressione alta e funzionamento cognitivo

31 marzo 2024, a cura di Sabrina Guzzetti

L'IPERTENSIONE è una condizione, costante e non occasionale, in cui la pressione arteriosa a riposo risulta più alta rispetto agli standard fisiologici considerati normali, ossia al di sopra di 90 e 140 mm/Hg, rispettivamente, per la pressione arteriosa minima (o pressione diastolica) e massima (o pressione sistolica). L’ipertensione, interessando oltre il 30% della popolazione mondiale adulta (Mills et al., 2020), si annovera tra le malattie più diffuse al mondo. Rappresenta un fattore di rischio per tutte le cause di mortalità, il principale per le malattie cardiovascolari (Stanaway et al., 2018), ed è stata riconosciuta tra i fattori di rischio per il deterioramento cognitivo descritti nel 2020 dalla Commissione Lancet sulla prevenzione, l’intervento e la cura della demenza. 

La ricerca indica l’esistenza di una solida associazione tra presenza di ipertensione nella mezza età e più alto RISCHIO DI DETERIORAMENTO COGNITIVO negli anni successivi. 

Una ricerca statunitense (McGrath et al., 2017), che ha coinvolto 1440 persone con età compresa tra i 55 e i 69 anni, ha evidenziato un maggior rischio di deterioramento cognitivo in caso di ipertensione, rischio che aumentava ulteriormente in caso di ipertensione persistente dalla mezza alla tarda età. Allargando lo sguardo, nella stessa popolazione è stato anche osservato che le persone che a 60 anni esibivano parametri cardiovascolari ideali, presentavano, rispetto alle persone con almeno un fattore di rischio vascolare, un più basso rischio di sviluppare qualunque tipo di demenza dopo 10 anni, ivi compresa demenza vascolare e malattia di Alzheimer (Pase et al., 2016). Quali erano questi parametri cardiovascolari ideali? Pressione minima inferiore a 80 e massima inferiore a 120 mm/Hg, normopeso, attività fisica regolare, dieta sana, livelli di colesterolo ottimali, astensione dal fumo e normali livelli di glicemia a digiuno, tutti fattori affrontati da questo opuscolo informativo proprio perché relati alla salute cognitiva.

Un’altra ricerca (Abel et al., 2018), condotta su 8639 dipendenti pubblici inglesi, ha evidenziato un maggior rischio di deterioramento cognitivo persino in presenza di una singola rilevazione di pressione massima superiore a 130 mm/Hg.

Cosa succede al nostro cervello in caso di ipertensione? Uno studio condotto su 5362 individui nati nel Regno Unito nel 1946 e sottoposti sia a monitoraggio della pressione dai 36 ai 69 anni, che a risonanza magnetica cerebrale, ha riportato un’associazione tra presenza di ipertensione a partire dalla giovane età adulta e riscontro di una RIDUZIONE DEL VOLUME CEREBRALE e di ALTERAZIONI CEREBROVASCOLARI tra 69 e i 71 anni di età (Lane et al., 2019). Questi risultati, oltre a suggerire i potenziali meccanismi tramite i quali l’ipertensione può agire sulla cognitività, sottolinea come il monitoraggio della pressione e l’eventuale trattamento dell’ipertensione debbano essere precoci, già a partire dai 40 anni, in modo tale da massimizzare la salute del cervello negli anni successivi.

Volgendo ora lo sguardo agli effetti dell’introduzione di TRATTAMENTI FARMACOLOGICI contro l’ipertensione sulla salute cognitiva, vogliamo citare i risultati di uno studio teso alla riduzione della pressione sistolica attuato negli Stati Uniti e a Porto Rico (Williamson et al., 2016; 2019), definito SPRINT (dall’inglese ‘US and Puerto Rico Systolic Blood Pressure Intervention Trial’). Lo studio, che ha coinvolto 9361 adulti ipertesi di età pari o superiore a 50 anni, ha confrontato i risultati di un trattamento intensivo, teso a portare la pressione massima al di sotto dei 120 mm/Hg, con quelli conseguiti attraverso un trattamento standard, teso a mantenerla soltanto al di sotto dei 140 mm/Hg. Nel gruppo sottoposto a trattamento intensivo è stata riscontrata, nell’arco dei successivi due anni dalla fine del trattamento, una riduzione di incidenza di Mild Cognitive Impairment o Compromissione Cognitiva Lieve pari a circa il 20% e una riduzione di incidenza di deterioramento cognitivo pari a circa 16%.

Ma quali sono i farmaci antipertensivi? Hanno effetti diversi sul rischio di deterioramento cognitivo? 

Esistono quattro principali CATEGORIE DI FARMACI ANTIPERTENSIVI: gli inibitori dell'Enzima di Conversione dell'Angiotensina, altrimenti conosciuti come ACE-inibitori, come l’Enalapril e il Ramipril; gli antagonisti del recettore dell'angiotensina, conosciuti anche come sartani, come il Losartan e l’Olmesartan; i calcio antagonisti, come l’amlodipina; i diuretici tiazidici e simil-tiazidici. Ciascuno di questi farmaci, spesso usati in combinazione tra di loro, può essere impiegato senza che ci siano particolari controindicazioni, salvo in casi particolari valutati dal medico specialista. 

Potremmo citare molti studi che si sono occupati di indagare l’effetto dei diversi trattamenti antipertensivi sul rischio di declino cognitivo. Quattro metanalisi, che hanno combinato i dati di più studi condotti su questa tematica, hanno concordemente evidenziato una più bassa incidenza di qualunque forma di demenza, compresa la Malattia di Alzheimer, nelle persone sottoposte a trattamento. La prima, che ha incluso studi condotti su qualunque farmaco antipertensivo, ha riportato una riduzione del rischio di demenza attorno al 10% (Peters et al., 2019). La seconda e la terza metanalisi hanno indagato, nello specifico, il ruolo protettivo contro il deterioramento cognitivo dei farmaci diuretici (Tully et al., 2016) e del trattamento con calcio antagonisti (Hussain et al., 2018), con risultati in linea alla precedente metanalisi. Una quarta metanalisi (Ding et al., 2020), oltre a replicare i dati precedenti, ha indagato la presenza di eventuali differenze nel potere neuroprotettivo dei diversi trattamenti antipertensivi, non evidenziando alcuna differenza significativa tra le diverse classi di farmaci. 

Oltre che con il ricorso ai farmaci, l’ipertensione può essere prevenuta o contenuta tramite un ampio ventaglio di FATTORI LEGATI ALLO STILE DI VITA (Valenzuela et al., 2021), che sono stati dimostrati in grado di modulare tutta una serie di processi fisiologici relati alla pressione, quali ad esempio la glicemia, il lume dei vasi sanguigni e l’attività infiammatoria. I fattori sui quali abbiamo a disposizione maggiori evidenze sono la pratica costante di attività fisica, la perdita di peso in caso di obesità o sovrappeso e l’adozione di una dieta sana e povera di sale. Alcuni recenti studi hanno inoltre suggerito il possibile ruolo del mantenimento di una buona qualità del sonno, intesa sia in termini di sufficiente durata che di regolarità negli orari, e della riduzione dello stress. 


Quali sono gli EFFETTI, sul nostro cervello, dell’implementazione di strategie efficaci per il CONTENIMENTO DEL RIALZO PRESSORIO? L’uso dei farmaci antipertensivi, così come il miglioramento nello stile di vita, si sono dimostrati in grado di limitare il deposito e l’accumulo di sostanze tossiche per il nostro cervello, come le proteine tau e amiloide, ma anche di ridurre le alterazioni vascolari e i processi infiammatori (Livingston et al., 2020), rappresentando dunque aspetti fondamentali nel mantenimento della salute cognitiva.

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Perchè la musica fa venire la pelle d’oca?

22 dicembre 2023, a cura di Roberto Dominici

Nella vita quotidiana tutti gli esseri umani vivono regolarmente esperienze complesse e piacevoli come l’ascolto della musica, il canto o la produzione di suoni, che non sembrano avere alcuno specifico vantaggio di sopravvivenza per la specie umana. In realtà gli effetti indotti dalla musica hanno un significato di essenziale, di “ricompensa” nella esperienza umana sia motivazionale che di piacere.


La musica attiva alcune aree del cervello che sono coinvolte nel movimento, programmazione, attenzione, apprendimento e memoria. 


La musica rilascia nel cervello anche una sostanza chimica chiamata dopamina che migliora l’umore e riduce lo stato d’ansia. La dopamina inoltre trasmette piacere, gioia e motivazione, mette in azione tutta la sensorialità umana. La musica, infatti, oltre a suscitare un ampio spettro di emozioni, produce delle risposte a livello fisico, che molte persone descrivono come “avere i brividi” oppure “avere la pelle d’oca”. In particolare, diverse ricerche nell’ambito delle neuroscienze suggeriscono che la musica possa attivare il sistema limbico, ovvero una serie di strutture cerebrali coinvolte nell’elaborazione delle emozioni, tra cui l’amigdala, l’ippocampo e il giro cingolato anteriore. Essa suscita emozioni poiché è caratterizzata da quelle stesse strutture che sono presenti anche nel linguaggio parlato e che permettono di esprimere le emozioni. Comprendere come il cervello traduce una sequenza strutturata di suoni, come la musica, in un’esperienza piacevole e gratificante è una domanda affascinante che può essere cruciale per comprendere meglio la elaborazione delle ricompense astratte negli esseri umani.

Precedenti studi di Neuroimaging indicano un ruolo importante  del sistema dopaminergico nel piacere e gratificazione evocati dalla musica, ed uno studio recente pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS da un gruppo di ricerca spagnolo ha dimostrato, mediante la modulazione farmacologica del sistema che funziona a dopamina,  un ruolo causale della stessa nella gratificazione musicale indicando che la trasmissione dopaminergica potrebbe svolgere un ruolo complesso o ruoli aggiuntivi rispetto a quelli postulati, nell’elaborazione affettiva ed in particolare nelle attività cognitive astratte.


La scienza ha dimostrato che suonare uno strumento fa bene al cervello: lo studio musicale può cambiare la struttura del cervello migliorandone il funzionamento. Può anche migliorare la memoria a lungo termine e portare a un maggiore sviluppo cerebrale per coloro che iniziano in giovane età. Associando una melodia o un ritmo alle informazioni, si crea una traccia di memoria più forte nell’ippocampo, rendendone più facile il ricordo  in seguito. Inoltre, la musica può anche migliorare la nostra creatività. Quando ascoltiamo la musica, il nostro cervello entra in uno stato di maggiore eccitazione e attenzione. I risultati indicano che la musica modifica l’andamento delle onde cerebrali causando un calo di concentrazione; ma allo stesso tempo, fa crescere la motivazione e il buon umore del 28% rispetto all’assenza di suoni e del 13% in più rispetto a un podcast parlato. Può creare esperienze emozionali positive le quali danno luogo alla secrezione di ormoni che rafforzano il sistema immunitario.


La musica permette ai pazienti con gravi lesioni cerebrali di richiamare alla memoria ricordi personali. 


La musica inoltre allevia il dolore. I pazienti chirurgici che ascoltano musica prima, durante o dopo gli interventi mostrano punteggi ridotti nella scala del dolore, un ridotto senso di ansia e bisogno di analgesici. E quando i chirurghi ascoltano la propria musica preferita, le loro tecniche chirurgiche e la loro efficienza migliora; inoltra essa aiuta nella produzione di un ormone legato allo stress chiamato cortisolo: il cortisolo aumenta l’utilizzo del glucosio da parte del cervello, è soprattutto una fonte di energia e migliora la disponibilità di sostanze necessarie a riparare i tessuti danneggiati.


La musica che dà i brividi accresce anche l’altruismo, la musica che ci piace ascoltare ci rende più gentili verso gli altri. E  nel caso dei musicisti  a cui piace suonare uno strumento quando ascoltano musica, il loro cervello si accenderà simmetricamente e l’area del corpo calloso, quella che collega l’emisfero destro e sinistro del cervello nel loro cervello accrescerà le sue dimensioni.


Una musica rilassante può abbassare la pressione alta e può aiutare le persone che soffrono di emicrania e mal di testa cronici, riducendo intensità, frequenza e durata degli attacchi. Uno studio ha rivelato che ascoltare la musica aiuta i bambini che soffrono di epilessia e riduce il numero di crisi nei pazienti. 


L’elenco degli effetti benefici della musica include molte altre situazioni e condizioni della vita umana che confermano quanto scrisse Friedrich Nietzsche nel suo Inno alla vita (Hymnus an das Leben): senza musica la vita sarebbe un errore.

L'importanza dei contatti sociali

22 novembre 2023, a cura di Giulia Gualco

In questo articolo vogliamo approfondire un altro tra i 12 fattori di rischio indicati nel 2020 dalla Commissione Lancet sulla prevenzione, l’intervento e la cura della demenza: I CONTATTI SOCIALI.

I contatti sociali, ad oggi riconosciuti come fattore protettivo della demenza, contribuiscono ad arricchire la nostra riserva cognitiva e sono fonte di stimolo per  attuare comportamenti che fanno bene alla nostra salute. Diversi studi suggeriscono che la riduzione delle relazioni sociali aumenta il rischio di sviluppo di demenza e che la tendenza all’isolamento può rappresentare un campanello d’allarme per l’esordio di una demenza. 

Lo STATO CIVILE ha un ruolo importante predittivo circa il coinvolgimento sociale della persona. La maggior parte delle persone in età adulta sono sposate o comunque coinvolte in una relazione stabile sin dalla giovane età e sono generalmente esposte a maggiori contatti sociali rispetto  ai single: questo permette di fare una stima a lungo termine sugli effetti dei contatti sociali sull’andamento della cognitività. Con l’avanzare degli anni, tuttavia, molte persone, perdendo il proprio compagno, tendono a ridurre le proprie relazioni sociali. Si tratta soprattutto di donne, vista la loro più alta speranza di vita rispetto agli uomini. Secondo i dati ISTAT 2022 la speranza di vita per uomini e donne, infatti, è pari a 80,5 e 84, 8 rispettivamente.  Uno studio che ha coinvolto più di 800 mila persone in tutto il mondo ha dimostrato che il rischio di sviluppare demenza è più elevato nei single e nelle persone vedove rispetto che nelle persone sposate, indipendentemente dal contesto socio-culturale di appartenenza e dal sesso. 

I risultati di diversi studi suggeriscono che il MANTENIMENTO DEI CONTATTI SOCIALI in mezza e tarda età è associato ad un miglior funzionamento cognitivo e ad una riduzione del rischio di sviluppare demenza, indipendentemente dallo stile di vita socio-economico e da altri fattori che caratterizzano le persone coinvolte.
Uno studio che ha coinvolto più di 100 mila persone di età pari o superiore ai 50 anni, seguiti per un periodo di tempo che andava da 2 a 21 anni, ha evidenziato che maggiori contatti sociali (misurati attraverso la partecipazione ad attività sociali e la rete sociale dei partecipanti) risultavano associati ad un miglior funzionamento cognitivo negli anni successivi, indipendentemente dal genere degli individui esaminati e dal momento di rilevazione.
Da un altro studio che ha seguito delle persone per un periodo di almeno 10 anni, è emerso il ruolo protettivo di un buon coinvolgimento sociale per la demenza. Uno studio condotto nel Regno Unito su oltre 10 mila persone seguite per 28 anni ha dimostrato effetti protettivi più a lungo termine: le persone che avevano più contatti sociali all’età di 60 anni avevano infatti minori possibilità di sviluppare una demenza nei 15 anni successivi.
Una ricerca condotta in Giappone su oltre 13 mila adulti di età superiore ai 65 anni, seguiti per circa 10 anni, ha studiato la sfera dei contatti sociali dettagliandola in 5 ambiti: stato civile; relazioni famigliari; contatti con gli amici; partecipazione ad attività comunitarie; coinvolgimento in un’attività lavorativa. Chi aveva ottenuto un punteggio alto nei 5 ambiti aveva il 46% di possibilità in meno di sviluppare una demenza rispetto a chi aveva ottenuto un punteggio più basso. 

Abbiamo ad oggi poche evidenze in merito all’effetto degli INTERVENTI DI SOCIALIZZAZIONE  sui pazienti con demenza. Uno studio che ha coinvolto 567 persone di età pari o maggiore ai 60 anni con un buon funzionamento cognitivo globale, tuttavia, ha dimostrato una relazione tra la partecipazione ad attività di gruppo (es. incontri di gruppo; gruppi di discussione) e il mantenimento nel lungo termine di un migliore funzionamento cognitivo globale e di un maggiore volume cerebrale. 

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Perché il caldo danneggia il cervello

28 agosto 2023, a cura di Roberto Dominici

Le ondate di caldo insopportabile di questa rovente estate 2023, determinano una sofferenza fisica e mentale importante per tutte le persone ed in particolare per i bambini, gli anziani di età superiore ai 65 anni e i soggetti fragili, sofferenza particolarmente avvertita dal nostro cervello che possiede una speciale struttura chiamata ipotalamo che provvede al mantenimento dell’omeostasi corporea grazie alla capacità di regolare la temperatura del corpo attraverso il processo di sudorazione (negli ambienti caldi) o il riflesso del brivido (negli ambiente freddi).

L’ipotalamo è dotato infatti di termocettori ed è la regione cerebrale maggiormente deputata alla termoregolazione. La sua temperatura è molto simile a quella del “core” e può essere considerata la temperatura corporea. Quando la temperatura esterna è più alta, il cervello rallenta. Si ha infatti un aumento del flusso sanguigno e della vasodilatazione e il metabolismo non funziona più come dovrebbe, con ripercussioni anche sulla trasmissione degli impulsi nervosi.

Un esperimento condotto dall’Università di Harvard (Boston) ha dimostrato come all’aumentare delle temperature corrisponda una diminuzione della nostra lucidità mentale. Nello studio, pubblicato su Plos Medicine nel 2016, i ricercatori durante giornate particolarmente calde, hanno coinvolto due gruppi di studenti per analizzarne le performance cognitive. I ragazzi sono stati sottoposti a due test nei 12 giorni successivi; alcuni di loro alloggiavano in stanze con aria condizionata accesa e una temperatura intorno ai 21°C, mentre altri in stanze con aria condizionata spenta e una temperatura intorno ai 26-27°C. E’ emerso che i ragazzi nelle stanze senza aria condizionata avevano reazioni più lente del 13% e sbagliavano il 10% di risposte in più rispetto a coloro che soggiornavano in stanze climatizzate.

Un incremento anche minimo delle temperature ha dunque un impatto sulla nostra mente e può portarci a sbagliare la risposta anche di fronte a domande cui saremmo in grado di rispondere. In questo esperimento, poi, c’è un altro elemento da considerare: i soggetti, giovani e sani, privati di aria condizionata non si erano adattati alla temperatura di 26° C, un adattamento che sarebbe invece avvenuto se fossero rimasti in quella condizione climatica per alcuni mesi (e le capacità cerebrali sarebbero quindi tornate normali). Per questo sono scattati i meccanismi di compensazione che hanno rallentato la capacità di calcolo: è come se il loro cervello sia stato distratto dal punto di vista metabolico a causa della necessità di mantenere costante la temperatura corporea.

Chi vive abitualmente in regioni calde, per esempio nella zona dei Tropici, si è adattato a quelle temperature e non ha alcun rallentamento mentale. Per il cervello è ideale una temperatura compresa tra 19 e 23° C, ma purtroppo assistiamo a un aumento di sbalzi termici. Pensiamo per esempio alle conseguenze sugli anziani: in loro i meccanismi di compensazione sono molto più complessi di quelli che si attivano nei giovani, perché riguardano anche cuore, circolazione, riduzione della pressione.

L’esperimento di Harvard è un piccolo esempio di come un lieve cambiamento di temperatura richieda adattamenti che riducono le performance cognitive perfino in ragazzi perfettamente sani. Le alte temperature hanno un effetto negativo sul funzionamento cognitivo e sul comportamento, in particolare quando sono associate a un’elevata umidità. Quando il caldo è eccessivo, il cervello diventa meno efficiente perché ha meno energie per funzionare, sotto forma di glucosio. Infatti l’organismo deve spendere molta energia per regolare la sua temperatura interna, mantenendola in un intervallo accettabile e compatibile con la salute, evitando che si innalzi oltre misura sotto l’effetto di quella esterna.

L’energia che resta a disposizione per il cervello è quindi ridotta, con effetti peggiorativi sulle nostre capacità cognitive: diventiamo più rallentati, meno lucidi, meno concentrati; siamo meno capaci di riflettere, di analizzare un problema o una situazione, diventiamo meno critici e ci lasciamo anche convincere più facilmente. Il cervello, dovendo fare economia, utilizza maggiormente delle scorciatoie per valutare e prendere decisioni, con un maggior rischio di fare errori.

I cambiamenti repentini della situazione ambientale modificano la nostra situazione cognitiva. Nel passaggio dal caldo al freddo si attivano meccanismi di vasocostrizione, aumento di adrenalina, accelerazione del battito cardiaco, che sono effetto dell’attivazione del “sistema nervoso simpatico”. Al contrario, l’arrivo dell’afa eccessiva causa vasodilatazione, rallentamento del battito cardiaco, ridotta secrezione ormonale, un comportamento letargico, legato all’attivazione del “sistema nervoso parasimpatico”.

EFFETTI DEL CALORE SULL'ORGANISMO:

Inquinamento e cervello

14 luglio 2023, a cura di Sabrina Guzzetti

La demenza è probabilmente la più pressante sfida di salute pubblica della nostra epoca e, considerando che ad oggi non esiste una cura, l’identificazione di fattori di rischio modificabili è diventata essenziale per ridurre il carico personale, sociale ed economico di questa malattia.

L’interesse nei confronti dei possibili effetti dell’inquinamento sul funzionamento cognitivo è iniziato nei primi anni duemila, quando Calderon-Garciduenas e colleghi scoprirono alterazioni neuropatologiche del tipo associato alla Malattia di Alzheimer nei cani esposti all’aria inquinata di Città del Messico. Da allora la relazione tra esposizione ad aria inquinata e funzionamento cognitivo, declino cognitivo e demenza ha stimolato crescente interesse scientifico, tanto che nel 2020 la Commissione Lancet sulla prevenzione, l’intervento e la cura della demenza ha potuto raccogliere elementi tali da aggiungere l’inquinamento atmosferico nel novero dei fattori di rischio potenzialmente modificabili della demenza.

Evidenze epidemiologiche suggeriscono in modo concorde come l’esposizione cronica ad aria inquinata possa influenzare negativamente il funzionamento cognitivo, essendo associata a compromissione cognitiva e ad un aumentato rischio di demenza. Alcuni studi si sono concentrati su diversi agenti inquinanti, tra cui il materiale particolato, gli ossidi di azoto e l’ozono, rilevando più solide associazioni con l’aumento di incidenza di demenza per il materiale particolato PM2,5 e il biossido di azoto. Il particolato è l’inquinante forse più diffuso nelle aree urbane ed è formato da particelle solide o liquide sospese nell’aria, di derivazione sia naturale che antropica, ossia associata all'attività umana. Viene solitamente classificato in base alle dimensioni delle particelle che lo compongono, che variano da pochi nanometri a centinaia di micron. Con PM2,5 si identificano quelle particelle il cui diametro è inferiore o uguale ai 2,5 micron dove 1 micron corrisponde ad un millesimo di millimetro. Il particolato più grossolano è in genere efficacemente trattenuto da naso e laringe, mentre le polveri fini e ultra fini sono in grado di penetrare nel tratto respiratorio superiore e di arrivare fino a polmoni ed alveoli. Le nano polveri sono addirittura in grado di entrare nelle cellule dell’organismo, arrivando a penetrarne persino il nucleo e a determinare delle mutazioni del DNA.

Studi di neuroimmagine hanno riscontrato la presenza di cambiamenti nella struttura del cervello potenzialmente determinati dall’inquinamento, riportando frequenti associazioni tra esposizione ad aria inquinata e riduzione del volume di sostanza bianca e sostanza grigia, aumento del volume dei ventricoli e riduzione delle dimensioni del corpo calloso.

Modelli animali suggeriscono come gli agenti inquinanti, tra cui il particolato, siano in grado di accelerare i processi neurodegenerativi, agendo a livello cardiovascolare e cerebrovascolare, nel deposito di beta-amiloide e nella formazione delle proteina precursore dell’amiloide, entrambe coinvolte nell'eziopatogenesi della malattia di Alzheimer.

L'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) e l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) hanno classificato il particolato come cancerogeno, ovvero in grado di causare tumori o favorirne l'insorgenza e la propagazione. Ne è stato dimostrato un ruolo anche nelle malattie cardiache e respiratorie e ora sempre più attenzione viene rivolta anche ai suoi effetti sul cervello. Secondo l’OMS, l’inquinamento atmosferico più in generale è il «maggior rischio ambientale per la salute» e, secondo le stime più recenti, sono 7 milioni l’anno le morti premature dovute agli inquinanti atmosferici. Sebbene queste siano per la maggior parte concentrate nei Paesi a medio e basso reddito, l’inquinamento dell’aria resta tra le principali minacce alla salute anche in Europa, dove, secondo le stime della European Environment Agency, l’esposizione alle particelle sottili ha causato più di 400 000 decessi nel 2018 e dove l’aspettativa di vita si riduce di circa 2.2 anni per colpa dell’aria inquinata. Guardando all’Italia, l’inquinamento atmosferico è un problema che ci riguarda molto da vicino, considerando che la Pianura Padana è annoverata tra le aree più inquinate d’Europa. 

In considerazione delle solide evidenze scientifiche relative agli effetti dell'inquinamento sulla salute in generale e sul funzionamento cognitivo nello specifico, i decisori politici italiani ed europei dovrebbero porre in cima alla propria agenda la tutela dell'ambiente, proponendo e attuando politiche integrate volte a contrastare l'inquinamento atmosferico. In questo scenario i singoli individui dovrebbero maturare la consapevolezza di essere agenti attivi nel promuovere la  volontà politica di dare rilevanza a questi temi, in modo tale che la prevenzione non rimaga mera responsabilità dei singoli individui, ma onere della collettività e obiettivo primario dei suoi rappresentanti. 



BIBLIOGRAFIA

Abolhasani, E., Hachinski, V., Ghazaleh, N., Azarpazhooh, M. R., Mokhber, N., & Martin, J. (2023). Air pollution and incidence of dementia: A systematic review and meta-analysis. Neurology, 100(2), e242-e254.

Calderón-Garcidueñas, L., Azzarelli, B., Acuna, H., Garcia, R., Gambling, T. M., Osnaya, N., ... & Rewcastle, B. (2002). Air pollution and brain damage. Toxicologic pathology, 30(3), 373-389.

Delgado-Saborit, J. M., Guercio, V., Gowers, A. M., Shaddick, G., Fox, N. C., & Love, S. (2021). A critical review of the epidemiological evidence of effects of air pollution on dementia, cognitive function and cognitive decline in adult population. Science of the Total Environment, 757, 143734.

Livingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., ... & Mukadam, N. (2020). Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, 396(10248), 413-446.

https://www.eea.europa.eu/it 

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Il complesso legame tra depressione e demenza

30 giugno 2023, a cura di Chiara Tagliabue

Continuiamo la disamina dei fattori di rischio per la demenza andando a trattare il tema della depressione.

Nell’anzianità la prevalenza della depressione aumenta e comporta nuove sfide per la salute mentale dell’individuo. Depressione e difficoltà cognitive sono pertanto delle condizioni molto comuni in età avanzata e frequentemente si presentano assieme. Ciò comporta il fatto che la relazione tra depressione e demenza risulti essere molto complessa e non è stata ancora del tutto compresa. 

Una recente meta-analisi (Asmer et al., 2018) ha determinato che la prevalenza di depressione nelle varie tipologie di demenza e, nello specifico, nella malattia di Alzheimer sia rispettivamente del 15.9% e 14.8%.

Vista la complessità dell’argomento, diverse teorie (Bennet et al., 2014), che non necessariamente si escludono a vicenda, sono state sviluppate per cercare di capire quale sia il legame tra depressione e demenza nell’anziano:


Non esiste tuttora una risposta certa su quale sia la natura del legame tra depressione e demenza, così come anche evidenziato da una recente revisione della letteratura su 31 studi (Wiels et al., 2020). 

Gli autori di questa revisione sottolineano infatti come i sintomi depressivi possano sia essere un fattore di rischio indipendente, sia una manifestazione prodromica della demenza; la depressione che inizia nella tarda età adulta e nell’anzianità aumenta il rischio di sviluppare demenza e tale connessione sembra dipendere quindi dall’età di insorgenza, ma anche dalla gravità della depressione e dall’efficacia dei trattamenti con antidepressivi (Almeida et al., 2017). In altri casi però, depressione e demenza possono originare da fattori di rischio comuni, come ad esempio disturbi cerebro-vascolari. Infine, in altri casi, possono non avere alcuna connessione causale e manifestarsi contemporaneamente per puro caso, come due disturbi neuropsichiatrici separati che condividono i medesimi fattori di rischio.


Qualunque sia l’associazione, è importante comunque sottolineare come la depressione sia un fattore di rischio modificabile per lo sviluppo della demenza, pertanto trattare la depressione può potenzialmente rallentare la progressione della demenza e ridurre la probabilità di insorgenza. Sembrerebbe infatti che eliminare la depressione produca una riduzione del 4%, a livello di popolazione, nell’incidenza della demenza (Livingston et al., 2017). Tuttavia risulta difficile, nella pratica clinica, identificare gli anziani con depressione che presentino un rischio maggiore di sviluppare demenza e, di conseguenza, quali di questi potrebbero effettivamente beneficiare di interventi specifici per attenuare tale rischio. 

Alcune evidenze (Dafsari et al., 2020) hanno comunque suggerito come il trattamento con antidepressivi dei sintomi depressivi influenzi il rischio, lo sviluppo e la progressione della demenza. Sembra infatti che il trattamento con antidepressivi promuova la genesi di neuroni nell’ippocampo e riduca l’infiammazione, fenomeni entrambi che hanno un ruolo causale nella patogenesi della demenza. L’identificazione precoce dei sintomi depressivi e il successivo trattamento con antidepressivi può quindi essere essenziale nella prevenzione della demenza per ridurre gli effetti neurotossici (sul cervello) degli episodi depressivi.

Nonostante ancora non sia del tutto chiaro quale sia l’effettivo legame tra depressione e demenza, ciò che è importante sottolineare è come sia cruciale aumentare la consapevolezza che i sintomi depressivi siano un fattore di rischio e forse un segno precoce di un futuro declino cognitivo.


Per scoprire le correlazioni degli altri fattori di rischio con la demenza, continuate a seguire la nostra newsletter!

 

Vai all'articolo originaleLivingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., ... & Mukadam, N. (2020). Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, 396(10248), 413-446.


 

BIBLIOGRAFIA INTEGRATIVA:


Almeida OP, Hankey GJ, Yeap BB, Golledge J, Flicker L. Depression as a modifiable factor to decrease the risk of dementia. Transl Psychiatry. (2017)


Asmer MS, Kirkham J, Newton H, Ismail Z, Elbayoumi H, Leung RH, et al. Meta-analysis of the prevalence of major depressive disorder among older adults with dementia. J Clin Psychiatry. (2018) 


Bennett S, Thomas AJ. Depression and dementia: Cause, consequence or coincidence? Maturitas. (2014)


Dafsari FS, Jessen F. Depression—an underrecognized target for prevention of dementia in Alzheimer’s disease. Transl Psychiatry (2020).


Wiels W, Baeken C, Engelborghs S. Depressive Symptoms in the Elderly—An Early Symptom of Dementia? A Systematic Review. Frontiers in Pharmacology. (2020)

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Quali sono i più comuni falsi miti che riguardano le demenze?

30 aprile 2023, a cura di Giulia Gualco

La demenza è una malattia molto diffusa che spesso spaventa perché comporta la progressiva perdita delle proprie capacità intellettive. La prevalenza della demenza nei paesi industrializzati è circa del 8% negli ultrasessantacinquenni e sale ad oltre il 20% dopo gli ottanta anni. Secondo alcune proiezioni, i casi di demenza potrebbero triplicarsi nei prossimi 30 anni nei paesi occidentali.

In questo articolo affronteremo alcuni dei più comuni falsi miti sul tema delle demenze.


1)  La demenza è ereditaria

Nella maggior parte dei casi le demenze si manifestano nelle persone anziane in maniera sporadica, ma in alcuni casi ricorrono su base ereditaria o familiare e più persone all’interno della stessa famiglia presentano questi disturbi. Le forme ereditarie hanno in genere un’età di comparsa più precoce e una più rapida evoluzione della malattia, rispetto alle forme sporadiche e sono dovute ad alterazioni genetiche.
La Malattia di Alzheimer ereditaria è rara (1-2% dei casi) e più probabile in caso di esordio precoce (<65 anni). Sono stati identificati 3 geni responsabili della demenza di Alzheimer ereditaria: APP, PSEN1, PSEN2. Nel restante 98-99% dei casi la Malattia di Alzheimer è sporadica, soggetta a fattori di rischio genetici e ambientali. Esiste una predisposizione familiare anche nelle forme sporadiche: un caso di Malattia di Alzheimer in famiglia aumenta di 4-5 volte la probabilità di sviluppare la malattia.

Le demenze fronto-temporali sono ereditarie nel 30-40% dei casi. Responsabili della maggior parte delle forme di demenza fronto-temporale familiare sono le mutazioni a carico dei geni che codificano per tau (MAPT), progranulina (GRN) e C9ORF72.

 

2) Invecchiando è normale sviluppare una forma di demenza

C’è differenza tra un invecchiamento cognitivo fisiologico ed uno patologico. A partire dai 30 anni il nostro cervello comincia a perdere, per un processo di morte cellulare programmata (apoptosi), un numero di neuroni progressivamente maggiore, fino a centomila al giorno dopo i 70 anni. Nonostante la perdita progressiva di neuroni non tutti sviluppiamo una demenza con l’avanzare dell’età in quanto il nostro cervello riesce a compensare fisiologicamente la perdita di neuroni grazie al fatto che il numero di neuroni è di gran lunga superiore a quello necessario per tutte le attività cerebrali (ridondanza) e alla capacità delle cellule nervose di apprendere nuove funzioni (plasticità). I cambiamenti cognitivi sono un processo normale e fisiologico dell’invecchiamento durante il quale si osserva una fisiologica modificazione delle funzioni cognitive:

Queste modificazioni sono tuttavia stabili e non hanno un impatto funzionale poiché l’anziano normale riesce a compensare.

All’aumentare dell’età diverse abilità cognitive quali velocità di elaborazione, memoria di lavoro, memoria a lungo termine e ragionamento - ossia quelle abilità generalmente indicate con il termine “intelligenza fluida”- mostrano un declino fisiologico, a fronte di un risparmio, se non di un incremento, delle conoscenze apprese, praticate e familiari che si accumulano nel corso del tempo, ossia della cosiddetta intelligenza cristallizzata.

Si va incontro a demenza quando l’invecchiamento cognitivo è di tipo patologico.

Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali definisce la demenza come un disturbo:

Non è possibile evitare l’invecchiamento cognitivo ma possiamo prevenirlo promuovendo i fattori protettivi per la salute del nostro cervello (fattori neuro-protettivi) e contrastando quei fattori che, al contrario, possono contribuire al declino delle funzioni cognitive (i famosi fattori di rischio di cui in parte abbiamo già parlato in alcuni degli articoli degli scorsi mesi).

 

3)  La demenza di Alzheimer è una forma più grave di demenza senile

 

Il termine “demenza senile” è spesso utilizzato anche da medici e specialisti. Tuttavia la demenza senile non esiste! E’ una terminologia obsoleta in quanto è vero che la demenza colpisce principalmente gli anziani ma può insorgere ad ogni età. La Malattia di Alzheimer è la più nota tra le più diffuse forme di demenza (50/60% dei casi) ma non è l’unica.

La Malattia di Alzheimer è una patologia irreversibile con esordio insidioso e una progressione gradualmente ingravescente. Le cause possono essere: genetiche, metaboliche, ambientali e legate allo stile di vita. A livello macroscopico si caratterizza per la perdita di neuroni e di connessioni sinaptiche a cui consegue una riduzione globale del volume cerebrale. A livello clinico i pazienti con demenza di Alzheimer vanno incontro ad una progressiva perdita delle capacità mnesiche, modifiche caratteriali e di personalità, disorientamento spazio-temporale, deficit linguistici e perdita di autonomia nel quotidiano.

 

Oltre alla demenza di Alzheimer esistono tuttavia altre forme di demenza; tra le più comuni troviamo:

 

4)  La demenza non si può curare

 

Le patologie dementigene hanno un andamento progressivo: non si può guarire dalla demenza ma è possibile rallentare il decadimento cognitivo e la progressione dei sintomi attraverso terapie farmacologiche e terapie non farmacologiche.

Le terapie non farmacologiche sono l'insieme di tutte quelle tecniche/strategie che, attraverso un approccio professionale standardizzato e di comprovata efficacia, possono ridurre i sintomi disturbanti, in associazione o meno a una terapia farmacologica.

Tra le terapie non farmacologiche più utilizzate troviamo:  

 

5) La demenza interessa soltanto la popolazione anziana

 

 La prevalenza delle demenze aumenta con l’avanzare dell’età seguendo questo schema:

Il principale fattore di rischio per la demenza è l’età. In linea generale l’incidenza annuale media è di 2-2,5 per 100.000 per anno nella popolazione di adulti tra i 30 e i 60 anni. I tassi salgono vertiginosamente attorno a valori tra i 100 e 170 casi per 100.000 con un incremento esponenziale positivo in parallelo con l’avanzare dell’età. Pertanto è vero che con l’avanzare dell’età aumenta la possibilità di sviluppare una demenza ma essa può insorgere anche prima dei 65 anni e le diverse tipologie di demenza hanno età di insorgenza differente.

 

6) La demenza non viene a chi ha fatto lavori di alto livello o ha studiato molto

Ne corso della vita possiamo coltivare la nostra riserva cognitiva ovvero la capacità di ogni individuo di far fronte al danno cerebrale (come, ad esempio, la demenza), quindi di ‘funzionare’ nonostante la malattia. Tra le esperienze che concorrono a formare la riserva cognitiva rientrano:

      percorso formativo scolastico

      attività lavorative ad alto impegno cognitivo o di elevata responsabilità

      attività cognitivamente stimolanti svolte nel tempo libero

Aumentando la nostra riserva cognitiva aumenta anche la plasticità del nostro cervello ovvero la capacità di cambiare la propria struttura o funzione in modo più o meno duraturo ed adattivo in risposta a particolari stimolazioni esterne. Pertanto per accumulare ‘punti’ di riserva cognitiva è importante tenersi sempre impegnati e coltivare i propri interessi!

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L'impatto del consumo di alcool sul cervello: perché è un fattore di rischio per lo sviluppo di demenza?

30 marzo 2023, a cura di Stella Dell'Era

L’alcool è considerata la droga psicotropa ricreativa più diffusa in quasi tutte le culture e il suo uso è in costante aumento: gli ultimi dati risalenti al 2018 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riportano che il 68% degli italiani ha assunto alcool negli ultimi 12 mesi (con una prevalenza dell’82% tra gli uomini). L'alcol è fortemente associato a modelli culturali e altri fattori socioculturali e relativi alla salute: gli effetti negativi sull’organismo e la facilità con cui è possibile procurarsi dell’alcool lo rendono una delle sostanze più rischiose in termini di dipendenza.

C'è un ampio consenso sul fatto che il consumo di alcol abbia effetti negativi sull’organismo: in particolare, l’assunzione di alcool è dannosa per il sistema nervoso, per l’apparato cardio-circolatorio e per alcuni organi quali fegato (cirrosi epatica), stomaco (gastrite e ulcera) e cuore (ipertensione, infarto e ictus).

Sono meno noti invece gli effetti del consumo eccessivo di alcol sul sistema nervoso: in particolare, è associato a cambiamenti cerebrali, deterioramento cognitivo e demenza.

 

IN CHE MODO L'ALCOOL DANNEGGIA IL CERVELLO?


L’etanolo e l’acetaldeide sono responsabili di danni cerebrali dal punto di vista strutturale e funzionale, inibendo le attività dell’encefalo (prime tra tutte quelle del cervelletto).

L’uso eccessivo di alcool interferisce con l’assorbimento a livello gastro-intestinale della tiamina, meglio conosciuta come vitamina B1: per questo motivo l’abuso di alcool si associa spesso a malnutrizione. La carenza di tiamina causa una forma insolita di demenza chiamata “sindrome di Wernicke-Korsakoff”, i cui sintomi includono confabulazione, amnesia retrograda ed anterograda, disfunzioni esecutive, alterazioni affettive e socio-cognitive oltre alla possibile comparsa di manifestazioni allucinatorie e paranoidi e comportamenti aggressivi.

Inoltre, il consumo eccessivo di alcol è un fattore di rischio per altre condizioni quali epilessia, encefalopatia epatica e demenza vascolare.

 

 In tale ambito, sta emergendo un numero crescente di prove sulla complessa relazione tra alcool e funzioni cognitive, in particolare per quanto riguarda i possibili esiti di demenza.

Di particolare interesse sono i risultati di uno studio longitudinale francese della durata di 5 anni svoltosi su oltre 30 milioni di persone con diagnosi di demenza: lo studio ha riscontrato una correlazione significativa tra disturbi da uso di alcol (uso dannoso o dipendenza) riportati nella storia clinica e aumentato rischio di demenza, in particolare per quanto riguarda gli uomini. Lo studio evidenzia inoltre che Il rapporto tra demenza e abuso di alcol sembra essere particolarmente evidente nelle demenze ad esordio precoce (età inferiore a 65 anni): 6 persone su 10 avevano una storia clinica di abuso di alcool, inteso come tre dosi standard al giorno per le donne e quattro per gli uomini (bicchieri di vino, lattine di birra o bicchierini di superalcolico).

I risultati di uno studio inglese con 23 anni di follow-up che ha analizzato partecipanti di età compresa tra 35 e 55 anni hanno mostrato che il consumo eccessivo di alcol causa un rapido declino nella fluenza verbale su base fonemica, capacità associata alle funzioni esecutive. Questo effetto sembra essere indipendente dal genere, dall’età e dal livello di istruzione mentre pare sia invece connesso alla quantità di unità alcoliche consumate: nello specifico, bere tra le 7 e le 14 unità alcoliche a settimana evidenzia un calo del 14% di questa abilità in 30 anni per arrivare ad un calo del 16% per chi consuma abitualmente più di 21 unità alcoliche settimanalmente. Sembrano quindi non esistere prove rispetto alla possibilità che il consumo limitato di alcol sia meno predittivo dello sviluppo di demenza rispetto ad un consumo eccessivo: infatti, è stata evidenziata un’aumentata probabilità di sviluppare un’atrofia dell'ippocampo destro legata al consumo già di 14-21 unità alcoliche settimanali.

 

COME CAPIRE SE LA QUANTITÀ DI ALCOOL CHE SI ASSUME È ECCESSIVA?


La comunità scientifica consiglia di assumere meno alcool possibile con lo slogan less is better (meno è meglio). Per permettere un’adeguata valutazione del rischio, va considerato che bere meno di 21 unità alcoliche a settimana potrebbe essere associato ad un minore rischio di demenza. Si consideri che un’unità alcolica corrisponde a 12 grammi di alcol puro ed equivale a:

·      un bicchiere di vino (125 ml a 12°)

·      una lattina di birra (330 ml a 4,5°)

·      un aperitivo (80 ml a 38°)

·      un bicchierino di superalcolico (40 ml a 40°).

 

Per scoprire le correlazioni degli altri fattori di rischio con la demenza, continuate a seguire la nostra newsletter!

 

Vai all'articolo originaleLivingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., ... & Mukadam, N. (2020). Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, 396(10248), 413-446.


 

BIBLIOGRAFIA INTEGRATIVA:


Sabia S, Fayosse A, Dumurgier J, et al. Alcohol consumption and risk of dementia: 23 year follow-up of Whitehall II cohort study. BMJ 2018; 362: k2927. 108


Schwarzinger M, Pollock BG, Hasan OSM, et al. Contribution of alcohol use disorders to the burden of dementia in France 2008–13: a nationwide retrospective cohort study. Lancet Public Health 2018; 3: e124–32


Topiwala A, Allan CL, Valkanova V, et al. Moderate alcohol consumption as risk factor for adverse brain outcomes and cognitive decline: longitudinal cohort study. BMJ 2017; 357: j2353

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Il cervello che invecchia: quali sono le normali difficoltà che si presentano nell’invecchiamento cognitivo fisiologico? Come mitigarle?

13 febbraio 2023, a cura di Sabrina Guzzetti

Conoscere i cambiamenti fisiologici che avvengono sul piano cognitivo all’avanzare dell’età è molto importante sia per gli addetti ai lavori, che sono chiamati ad identificare l’insorgenza di eventuali deficit, sia per le persone comuni, che in presenza di uno scadimento nelle proprie performance cognitive spesso si interrogano sulla necessità o meno di sottoporsi a degli approfondimenti di carattere clinico. I normali processi di invecchiamento cognitivo, inoltre, possono potenzialmente influenzare il funzionamento della persona nello svolgimento delle sue comuni attività di vita quotidiana, seppur non compromettendolo in modo sensibile come avviene invece nei casi di demenza o deterioramento cognitivo.

Alcune abilità cognitive si conservano pressoché stabili ed immutate col passare degli anni, mentre altre presentano un declino progressivo all’avanzare dell’età, sebbene esista una grandissima eterogeneità interindividuale nella velocità e nell’entità di tale peggioramento. Una distinzione spesso usata per descrivere l’andamento delle funzioni cognitive nell’intero ciclo di vita è quella fra intelligenza cristallizzata e fluida. L’intelligenza cristallizzata è altamente influenzata da aspetti socio-ambientali, culturali ed educativi e si riferisce a tutto quell’insieme di conoscenze e abilità iperapprese che si sono sviluppate grazie alla progressiva acquisizione di informazioni tratte dalle esperienze di vita della persona. Esempi di questo tipo di intelligenza sono il vocabolario, le conoscenze generali e la capacità di rispondere con efficienza a problemi concreti in situazioni familiari. Tali abilità rimangono stabili o persino migliorano nella sesta e settima decade di vita. L’intelligenza fluida, al contrario, si riferisce alla capacità di elaborare ed apprendere nuove informazioni, di risolvere problemi e di gestire situazioni non familiari, in modo indipendente dal bagaglio di nozioni possedute dalla persona. La velocità di elaborazione, l’attenzione, la capacità di apprendere nuove informazioni, la memoria di lavoro e le funzioni esecutive sono tutti considerati domini cognitivi dell’intelligenza fluida.

La velocità di elaborazione si riferisce alla velocità con cui vengono espletati i processi cognitivi. Questa abilità fluida inizia a peggiorare dopo i trent’anni e continua a deteriorarsi per tutto il resto della vita. Molti dei cambiamenti cognitivi riportati nell’invecchiamento sono appunto il risultato di un rallentamento della velocità di elaborazione. 

L’attenzione si riferisce all’abilità della persona di concentrarsi e focalizzarsi su stimoli specifici. Esistono numerose tipologie di attenzione, tra cui, per esempio, l’attenzione selettiva e l’attenzione divisa. L’attenzione selettiva è l’abilità di focalizzarsi su un compito ignorando le informazioni irrilevanti. Un esempio di tale tipo di attenzione è il cosiddetto 'effetto cocktail party’, ossia l'abilità delle persone di concentrarsi su una sola persona che parla o su una conversazione specifica in un ambiente rumoroso. L’attenzione divisa è invece la capacità di concentrarsi su compiti multipli simultaneamente, come avviene per esempio quando siamo alla guida e nel frattempo conversiamo con i passeggeri. Queste diverse tipologia di attenzione sono tutte più o meno sensibili agli effetti dell’invecchiamento e presentano dunque un peggioramento all’avanzare dell’età.

Una tra le più frequenti lamentele di anziani (e meno anziani) sul piano cognitivo riguarda il dominio della memoria. I cambiamenti età-correlati a carico della memoria sono in parte relati ai peggioramenti già discussi a carico della velocità dei processi di elaborazione e dell’abilità di ignorare le informazioni irrilevanti, ma dipendono anche da uno scadimento nella capacità di generare ed utilizzare strategie atte facilitare i processi di apprendimento. Così come nel caso dell’attenzione, anche la memoria è un dominio cognitivo composito, caratterizzato dalla presenza di diverse componenti. Una prima distinzione fondamentale riguarda la memoria dichiarativa e non dichiarativa. La prima si riferisce alla memoria esplicita, ossia al richiamo consapevole di informazioni, fatti ed eventi. Questo tipo di memoria si divide a propria volta in memoria semantica ed episodica. La prima include il bagaglio di conoscenze acquisite nel corso della vita, mentre la seconda riguarda gli eventi vissuti dalla persona, caratterizzati da un preciso contesto in termini temporali e spaziali. La memoria episodica può essere misurata attraverso compiti che richiedono di memorizzare racconti, liste di parole o figure. Sebbene entrambi questi tipi di memoria peggiorino all’avanzare dell’età, il tasso di decadimento è molto più accelerato e precoce nel caso della memoria episodica rispetto alla semantica. La memoria non dichiarativa o implicita si riferisce invece a quel tipo di memoria che è al di fuori dal controllo consapevole della persona. Esempi di questo tipo di memoria sono il ricordo di come si guida, si va in bicicletta o ci si annoda la cravatta. A differenza della memoria dichiarativa, quest’ultimo tipo di memoria rimane sostanzialmente stabile nel corso della vita. A complicare ulteriormente il quadro, la memoria si suddivide in componenti distinte non solo sulla base del tipo di materiale che viene ritenuto, ma anche sulla base dei diversi processi o step che ne caratterizzano il funzionamento, dalla fase di acquisizione, a quella di immagazzinamento a quella ancora di recupero delle informazioni. La capacità di immagazzinamento di informazioni apprese si mantiene sostanzialmente stabile nell’invecchiamento cognitivo fisiologico, mentre un declino si osserva sia nella fase di acquisizione che di recupero.

Con l’avanzare dell’età peggiora anche la cosiddetta memoria di lavoro, che si riferisce all’abilità di mantenere momentaneamente in memoria delle informazioni che vengono nel frattempo manipolate attivamente per svolgere operazioni più o meno complesse. È proprio la memoria di lavoro che ci consente, per esempio, di comprendere frasi lunghe e articolate o di eseguire calcoli complessi.

Il linguaggio è un ulteriore dominio altamente complesso, che include abilità cognitive sia cristallizzate, che fluide. Nel loro complesso, le abilità linguistiche rimangono pressoché inalterate nell’invecchiamento fisiologico. Tra le poche eccezioni a questo andamento generale di stabilità possiamo annoverare il recupero lessicale, che richiede la capacità di riconoscere ed identificare un oggetto di uso comune e di dirne il nome. Tale abilità rimane stabile fino a circa l’età di 70 anni, per poi subire un progressivo declino negli anni successivi. Un trend di peggioramento forse più marcato si evidenzia nel recupero dei nomi delle persone.

Le funzioni esecutive si riferiscono a tutte quelle abilità cognitive che consentono ad una persona di adottare comportamenti intenzionali, appropriati al contesto e coerenti ai propri scopi. Tra le funzioni esecutive si annoverano l’abilità di automonitoraggio, la capacità di pianificazione, il ragionamento, l’astrazione, la flessibilità mentale, l’abilità di inibire risposte automatiche in favore della produzione di risposte alternative e il problem solving. La maggior parte di queste funzioni tende a peggiorare con l’avanzare dell’età, alcune molto precocemente, come per esempio il ragionamento matematico e verbale, che declina già dopo i 45 anni, altre più tardivamente, come per esempio la capacità di astrazione e la flessibilità cognitiva, che presentano uno scadimento più evidente dopo i settant’anni. Le persone meno giovani, infatti, tendono a pensare in modo più concreto rispetto ai giovani e trovano tendenzialmente più faticoso gestire situazioni non familiari e a carattere non routinario.

Questo è quanto si verifica, con l’invecchiamento, a livello del nostro funzionamento cognitivo. Ma che cosa accade strutturalmente, nel nostro cervello, candelina dopo candelina? Già dopo i vent’anni si assiste ad una progressiva riduzione del volume della sostanza grigia, fenomeno che gradatamente va a determinare la cosiddetta atrofia cerebrale. L’atrofia è più marcata a livello della corteccia prefrontale, che non a caso è proprio quella regione del cervello che sottende a quel composito ventaglio di complesse capacità che abbiamo chiamato funzioni esecutive. Si assiste ad una riduzione del trofismo cerebrale anche a livello temporale, in particolare nella zona dell’ippocampo, seppur in modo meno marcato, e, di nuovo, tale sede è quella che sottende le abilità di memoria, anch’esse soggette ad uno scadimento età-correlato. L’entità, la localizzazione e l’estensione dell’atrofia è un aspetto molto importante nella diagnosi differenziale tra invecchiamento cognitivo fisiologico e patologico, sebbene la presenza di elevati livelli di atrofia non comporti in tutti casi necessariamente la presenza di demenza. 

Ma perché, negli anziani sani, si assiste al fenomeno dell’atrofia cerebrale? Il decremento del volume di sostanza grigia negli anziani sani è determinato in parte dalla morte dei neuroni, ma soprattutto dalla riduzione della loro dimensione e da una diminuzione del numero delle loro connessioni reciproche. 

Quali sono le implicazioni di tutti questi cambiamenti nella vita di tutti i giorni, mano a mano che si invecchia? Da definizione, nell’invecchiamento cognitivo fisiologico non si dovrebbe assistere ad una compromissione significativa dell’autonomia della persona nella conduzione delle sue usuali attività di vita quotidiana. La presenza di limitazioni funzionali in attività che in precedenza la persona era in grado di svolgere autonomamente, infatti, rappresenta un campanello di allarme, per cui risulta consigliabile effettuare un consulto neurologico e neuropsicologico. Ciò nonostante, anche nell’invecchiamento cognitivo fisiologico si possono verificare lievi e sfumate difficoltà nello svolgere alcune tra le attività quotidiane più complesse, che diventano più onerose e faticose, ma comunque non impossibili da eseguire.

I cambiamenti descritti interessano tutte le persone in egual misura? No. Al contrario, esiste un’importante variabilità tra individuo ed individuo nei cambiamenti cognitivi età-correlati. Parte di questa variabilità è attribuibile a differenze genetiche e alla presenza o meno di patologie, deficit sensoriali o problematiche psicologiche. Buona parte di questa variabilità, per fortuna di noi tutti, è invece attribuibile a fattori ambientali e ad aspetti legati allo stile di vita, che sono in grado non solo di mitigare gli effetti del normale invecchiamento cognitivo, ma persino di ritardare l’esordio delle manifestazioni cliniche associate a malattia neurologiche quali l’Alzheimer. Si tratta della cosiddetta riserva cognitiva, che va continuamente formandosi nel corso della vita grazie alle esperienze cognitivamente stimolanti avute nei cicli scolastici, nell’attività lavorativa e nel tempo libero. Le persone con maggiore riserva cognitiva sarebbero dotate di un sistema cognitivo più efficiente e flessibile, in grado di compensare o contrastare più efficacemente i fenomeni di atrofia o insulti di altro tipo a livello cerebrale. La letteratura scientifica ci suggerisce inoltre l’importante ruolo protettivo che può avere il training cognitivo negli anziani privi di patologie neurologiche. Non solo è possibile assistere ad un miglioramento delle prestazioni cognitive, ma sono stati osservati effetti significativi anche sull’uso funzionale delle abilità cognitive nella vita quotidiana.

In conclusione, seppur come in altri ambiti del nostro funzionamento, anche a livello cognitivo si assista, purtroppo, agli effetti deleteri dei normali processi di invecchiamento, l’entità e la velocità con cui esordiscono e progressivamente si intensificano possono variare enormemente in funzione del nostro stile di vita e degli stimoli a cui ci sottoponiamo. Il che deve spingere noi tutti ad assumere un ruolo attivo e propositivo nel mantenimento del nostro stesso benessere cognitivo, nella più ampia prospettiva di un invecchiamento di successo.


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Vai all'articolo originale Harada, C. N., Love, M. C. N., & Triebel, K. L. (2013). Normal cognitive aging. Clinics in geriatric medicine, 29(4), 737-752.

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Un approfondimento sull'Alzheimer Caffè

22 gennaio 2023, a cura di Chiara Tagliabue

L’Alzheimer Caffè è un intervento di tipo psicosociale, ideato dal Dottor Bere Miesen nel 1997, indirizzato a tutti coloro che si trovano ad avere a che fare con le fasi iniziali della malattia dementigena, siano essi pazienti e/o rispettivi caregiver.

L’Alzheimer Caffè si configura primariamente come uno spazio di condivisione, per contrastare l’emarginazione a cui spesso sono soggetti sia i malati che le loro famiglie. É un luogo in cui i partecipanti possono sentirsi liberi di condividere le proprie esperienze, ricevendo supporto e sviluppando la consapevolezza di non essere soli nell’affrontare la malattia e di non essere i soli a vivere determinate esperienze e problematiche (Miesen, 2004).


Sono tre gli obiettivi principali che l’Alzheimer Caffè si propone:

1. Fornire le informazioni mediche e psicosociali che riguardano la malattia;

2. Condividere liberamente le problematiche vissute dal malato e dai caregiver, affichè siano riconosciute ed accettate a livello sociale;

3. Promuovere l’emancipazione di malati e famiglie attraverso il supporto ai loro bisogni, stimolando le abilità residue dei pazienti e promuovendo la socializzazione dell’intero gruppo familiare.


Se da una parte pertanto l’Alzheimer Caffè rappresenta un intervento terapeutico attraverso l’informazione e la formazione del caregiver, dall’altra assume un aspetto più prettamente sociale promuovendo l’interazione tra i diversi attori coinvolti.

Durante gli incontri dell’Alzheimer Caffè vengono trattate ed approfondite diverse tematiche. La fase di informazione viene seguita da una fase di dibattito, in cui ciascun partecipante può apportare il proprio contributo. Alcuni incontri sono invece rivolti ai malati stessi, con attività quali musicoterapia, arteterapia o danzaterapia.


Quali sono le effettive ricadute derivanti dalla partecipazione all’Alzheimer Caffè?

Sebbene la partecipazione all’Alzheimer Caffè non induca miglioramenti nello stato cognitivo o funzionale del paziente, quello che sembra diminuire è sia la frequenza che la gravità dei disturbi comportamentali dell’ammalato (Trabucchi, 2012). Ciò, evidentemente, ha una ricaduta positiva sullo stress del caregiver, in quanto i disturbi comportamentali sono quelli che compromettono maggiormente la vita della famiglia, creando spesso situazioni di vergogna o imbarazzo. Razionalizzare che tali comportamenti sono intrinseci alla malattia, magari rispecchiandosi anche nelle esperienze condivise da altri, può infatti alleviare il disagio percepito dal caregiver. Infine, una riduzione dei disturbi comportamentali potrebbe contestualmente ridurre la necessità di interventi medici e ritardare l'istituzionalizzazione del paziente.


Alzheimer Caffè Lissone

Con il patrocinio del comune di Lissone, il 14 gennaio 2023 è partito l’Alzheimer Caffè Lissone. All’interno di questa iniziativa, promossa da una serie di associazioni del territorio di cui è capofila l’Associazione ARAL Onlus, APICog tratterà i seguenti argomenti:

- 28 gennaio 2023: Gestione dei disturbi cognitivi nella vita quotidiana

- 11 febbraio 2023: La gestione dei disturbi dell’umore e del comportamento nella demenza: inquadramento generale

- 25 febbraio 2023: La gestione dei disturbi dell’umore e del comportamento nella demenza: inquadramento generale: dalla teoria alla pratica

- 25 marzo 2023: Conversazioni im-perfette: la comunicazione con la persona con demenza nella vita quotidiana.


Per maggiori informazioni e per il programma completo, cliccare qui.


BIBLIOGRAFIA INTEGRATIVA:

Miesen B., Blom M. The Alzheimer caffè. A guideline manual for setting one up. 2001.

Trabucchi M., (2012). Alzheimer Caffè: la ricchezza di un’esperienza. Verona, Unicredit Foundation.

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Obesità e demenza

28 ottobre 2022, a cura di Giulia Gualco

In questo articolo analizziamo un altro dei 12 FATTORI DI RISCHIO indicato nel 2020 dalla Commissione Lancet nella prevenzione, l’intervento e la cura della demenza: l’OBESITÀ.

 

CONTROLLO DEL PESO, OBESITÀ E DEMENZA

Il sovrappeso rappresenta una preoccupazione emergente sul panorama mondiale, considerando i cambiamenti del BMI (indice di massa corporea) nella popolazione che invecchia. L'obesità è ritenuta un fattore di rischio della demenza. Esistono prove a supporto della relazione tra aumento del BMI e demenza: questa evidenza è confermata da una revisione di 19 studi che hanno coinvolto 589.649 persone di età iniziale compresa tra 35 e 65 anni, seguite per un periodo di 42 anni.  Da questo studio è emerso infatti che l’obesità (BMI ≥30) ma non il sovrappeso (BMI 25–30) era associata all’insorgenza di demenza in età avanzata.

La condizione di sovrappeso od obesità, misurate attraverso l'indice di massa corporea o l'adiposità centrale (circonferenza della vita) e la traiettoria dell'indice di massa corporea nel corso della vita sono state associate ad atrofia cerebrale, alterazioni della sostanza bianca e disturbi dell'integrità della barriera ematoencefalica. Questa osservazione ci porta a chiederci che relazione ci sia tra l'indice di massa corporea, la salute del cervello e il rischio di sviluppare una demenza. Se un elevato indice di massa corporea e l'adiposità centrale determinano un aumento del tessuto adiposo, allora la funzione endocrina del tessuto adiposo, mediata dagli ormoni del tessuto adiposo e dalle adipochine (molecole sintetizzate e secrete dal tessuto adiposo), potrebbe essere alla base dell'associazione con la demenza e il morbo di Alzheimer.

Il tessuto adiposo viscerale è associato a un aumentato rischio di compromissione delle connessioni cerebrali e di deterioramento cognitivo negli uomini e nelle donne. Uno studio pubblicato su una rivista americana mostra che nelle donne l’estradiolo, estrogeno prodotto dalle ovaie, ha un potenziale effetto protettivo. L’idea di partenza dello studio è che il tessuto adiposo viscerale in eccesso è associato a un aumento delle citochine pro-infiammatorie (molecole proteiche) e a una riduzione delle proteine anti-infiammatorie. Inoltre, è associato alla disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (ovvero il coordinatore centrale dei sistemi di risposta endocrina allo stress), e quindi può influenzare la risposta al cortisolo allo stress. Questa associazione tra il tessuto adiposo viscerale con l’infiammazione sistemica e la disregolazione ormonale può compromettere l’integrità della struttura cerebrale. D’altra parte, l’estradiolo ha proprietà antinfiammatorie e può rafforzare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. I ricercatori hanno perciò arruolato in questo studio 974 adulti cognitivamente sani di età compresa tra 19 e 79 anni, sottoposti a risonanza magnetica cerebrale per valutare il volume del cervello e il volume dei tessuti viscerali, oltre a esami ematici per misurare i livelli di estradiolo e a test di memoria. L’analisi statistica dei dati ha mostrato che il tessuto adiposo addominale era associato a un aumentato rischio di compromissione della struttura della rete cerebrale e di deterioramento cognitivo sia negli uomini sia nelle donne. Inoltre, nelle donne di mezza età, l’adiposità addominale era associata a un invecchiamento cognitivo accelerato: l’estradiolo può proteggere il cervello femminile da questi schemi strutturali di atrofia. I risultati hanno importanti implicazioni cliniche per lo sviluppo di strategie sesso-specifiche per supportare un invecchiamento cognitivo normale.

Un altro studio condotto a Singapore ha confermato che l'estensione del grasso viscerale è significativamente correlata alle prestazioni cognitive complessive e che l'adiposità viscerale addominale può contribuire alla patogenesi della disfunzione cognitiva».

Da uno studio condotto nel 2018 emerge che rispetto ad una condizione di peso normale, l'obesità in soggetti di mezza età aumenta il rischio di sviluppare demenza in età avanzata. Includendo l'obesità nei modelli di previsione, la prevalenza della demenza negli Stati Uniti è stimata in 7,1 milioni e 11,3 milioni rispettivamente nel 2030 e nel 2050. In Cina, la stima è di 13,1 milioni nel 2030 e 26,2 milioni nel 2050. Queste cifre sono rispettivamente del 9% e del 19% superiori per Stati Uniti e Cina, rispetto alle previsioni che si basano esclusivamente sul cambiamento demografico non includendo l’obesità come fattore di previsione. Lo studio conclude che una condizione di obesità in adulti di mezza età contribuisce in modo significativo allo sviluppo di una demenza nel corso degli anni successivi e di conseguenza gli interventi sanitari intrapresi per ridurre l'obesità in soggetti di mezza età rappresentano misure di prevenzione primaria per ridurre il rischio di sviluppare una demenza nel corso degli anni a seguire.

PERDITA DI PESO NELLA MEZZA ETÀ E RISCHIO DEMENZA

Attraverso una tecnica clinico-statistica sono stati combinati i risultati di studi differenti effettuati su adulti in sovrappeso e adulti obesi senza demenza, di età media 50 anni: è emerso che una perdita di peso di 2 kg o più nelle persone con BMI maggiore di 25 era associato ad un significativo miglioramento dell'attenzione e della memoria. Tutti gli studi tranne uno includevano partecipanti di età inferiore a 65 anni. Alcuni di questi studi hanno riportato un miglioramento della memoria nell’arco di 8–48 settimane e studi longitudinali a breve termine hanno riscontrato un miglioramento dopo in media 24 settimane; tuttavia, non esistono ancora dati sugli effetti a lungo termine o sull'effetto della perdita di peso sulla prevenzione della demenza.


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Vai all'articolo originale Livingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., ... & Mukadam, N. (2020). Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, 396(10248), 413-446. 


BIBLIOGRAFIA INTEGRATIVA:

Albanese E, Launer LJ, Egger M, et al. Body mass index in midlife and dementia: systematic review and meta-regression analysis of 589,649 men and women followed in longitudinal studies. Alzheimers Dement (Amst) 2017; 8: 165–78.

Kiliaan, A. J., Arnoldussen, I. A., & Gustafson, D. R. (2014). Adipokines: a link between obesity and dementia?. The Lancet Neurology, 13(9), 913-923.

Kivimäki M, Luukkonen R, Batty GD, et al. Body mass index and risk of dementia: analysis of individual-level data from 1·3 million individuals. Alzheimers Dement 2018; 14: 601–09.

Loef, M., & Walach, H. (2013). Midlife obesity and dementia: meta‐analysis and adjusted forecast of dementia prevalence in the United States and China. Obesity, 21(1), E51-E55.

Moh MC et al. Association of traditional and novel measures of central obesity with cognitive performance in older multi-ethnic Asians with type 2 diabetes. Clin Obes. 2020 Feb 4:e12352.

Rachel G. Zsido ; Matthias Heinrich et al. (2019). Association of Estradiol and Visceral Fat With Structural Brain Networks and Memory Performance in Adults; JAMA Netw Open, 2(6)

Veronese N, Facchini S, Stubbs B, et al. Weight loss is associated with improvements in cognitive function among overweight and obese people: a systematic review and meta-analysis. Neurosci Biobehav Rev 2017; 72: 87–94


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Demenza: il ruolo neuroprotettivo di scuola, lavoro e attività del tempo libero

19 settembre 2022, a cura di Sabrina Guzzetti

Fin dai lavori del 2017 la commissione Lancet sulla prevenzione, l’intervento e la cura della demenza ha evidenziato il ruolo della scolarizzazione e delle attività educative, lavorative e ludico-ricreative nella riduzione del rischio di demenza e in generale nel promuovere e nel preservare il funzionamento cognitivo e la salute del cervello.

Secondo uno studio californiano pubblicato nel 2017 da Kremen e collaboratori le capacità complessive del sistema cognitivo aumentano progressivamente nell’età dello sviluppo soprattutto ad opera delle sollecitazioni ricevute nei cicli scolastici, per poi stabilizzarsi nella tarda adolescenza, quando il cervello raggiunge il suo più alto livello di plasticità. Dopo i vent’anni, continuano gli autori, sono solo modesti gli effetti di ulteriori esperienze formative sullo sviluppo cognitivo generale e sull’intelligenza. Tali evidenze paiono suggerire, dunque, che la stimolazione delle capacità mentali sia particolarmente importante nei primi anni di vita, motivo per cui, appunto, la commissione Lancet promuove la scolarizzazione fino almeno alle scuole superiori quale importante fattore protettivo contro la demenza.

Ma che succede se si è perso il treno e per le ragioni più disparate non si è potuto sfruttare a pieno questa preziosa finestra di tempo? È possibile anche in più tarda età stimolare efficacemente il proprio funzionamento intellettivo allo scopo di favorire una maggiore e più duratura salute cognitiva? Per rispondere a questa domanda sono stati presi in esame non solo gli effetti di ulteriori cicli di istruzione o percorsi di formazione strutturati, ma anche delle attività ludico-ricreative e lavorative.

Uno studio inglese (Staff et al., 2018) condotto su 498 persone nate nel 1936  ha evidenziato che il coinvolgimento in attività intellettuali, in particolar modo se strutturate in modo tale da stimolare il problem solving, è in grado di favorire l’acquisizione di ulteriori abilità cognitive anche in tarda età. Un altro studio, pubblicato nel 2018 da Lee e collaboratori e condotto per cinque anni su 15 582 persone over sessantacinquenni, ha evidenziato un più basso rischio di demenza nei soggetti che si dedicavano abitualmente ad attività ludico-ricreative tra cui la lettura di libri, giornali e riviste, i giochi da tavolo, le carte e persino le scommesse ai cavalli. E ancora, un ulteriore lavoro pubblicato nello stesso anno da Chan e  collaboratori, che ha seguito 205 persone di età compresa tra i 30 e i 64 anni per ben 30 anni, ha dimostrato che attività quali viaggiare, uscire con gli amici, ascoltare musica, dedicarsi ad attività artistiche, fare attività fisica, leggere e parlare una seconda lingua sono associate ad maggiore mantenimento delle proprie capacità cognitive in tarda età, a prescindere dal livello di studio raggiunto e dallo stato di salute delle proprie strutture cerebrali.

Anche lo svolgimento di un lavoro cognitivamente impegnativo ha dimostrato di essere correlato ad un minor deterioramento delle funzioni cognitive sia prima, che in qualche caso anche a seguito, dell’età del pensionamento (Kajitani et al., 2017; Xue et al., 2018). Diversi studi (es. Grotz et al., 2016) hanno inoltre concordemente dimostrato che il pensionamento tardivo, ma non il numero complessivo di anni di lavoro, rappresenta un fattore protettivo contro la demenza.

E che dire di programmi di potenziamento cognitivo sviluppati appositamente per far fronte alle difficoltà cognitive cui gli individui vanno fisiologicamente incontro con l’avanzare dell’età? Da alcune revisioni della letteratura (Kane et al., 2017; Butler et al., 2018; Gates et al., 2019) emerge che interventi di questo tipo condotti nella popolazione generale, seppur in grado di migliorare i domini cognitivi trattati, sembra fatichino a produrre cambiamenti significativi nelle aree non direttamente stimolate e quindi nel funzionamento cognitivo generale. Tale problematicità è stata presa in attenta considerazione dall’Associazione per la Prevenzione dell’Invecchiamento Cognitivo (APICog), che nel realizzare le attività di training cognitivo proposte alla popolazione generale di oversessantenni ha sempre adottato un approccio multi-dominio, teso cioè a sollecitare più funzioni cognitive, con lo scopo di favorire un maggiore effetto di generalizzazione dei benefici conseguiti con la frequentazione dei corsi. La partecipazione ai corsi ‘Mente in Forma’, realizzati da APICog sin dal 2014, ha dimostrato di determinare miglioramenti a carico delle funzioni esecutive e della memoria a breve termine e un incremento promettente a livello del funzionamento cognitivo globale e della capacità di ragionamento non verbale (Tagliabue et al., 2018). I risultati conseguiti assumono un ruolo di particolare rilevanza se si tiene in considerazione la ridotta intensività dell’intervento, che di norma prevede un totale di sole 13 sessioni monosettimanali della durata di un’ora ciascuna. Un grande risultato, insomma, a fronte di un investimento di tempo infondo esiguo.

Qual è invece l’efficacia di interventi di riabilitazione cognitiva realizzati con persone che già hanno sviluppato degli iniziali deficit cognitivi? Seppur la letteratura scientifica sia povera di studi rigorosi sul tema, pare si ottengano effetti discreti sulla cognizione generale (Hill et al., 2017) ed una riduzione, dopo due anni dall’intervento, di peggioramenti a carico della memoria (Rovner et al., 2018).

Anche nell’ambito della stimolazione delle capacità cognitive, in ultima analisi, non è mai troppo presto o troppo tardi per intraprendere uno stile di vita protettivo contro le demenze: con un buon livello di scolarizzazione nell’età dello sviluppo, un impiego cognitivamente impegnativo in età adulta, attività ludico-ricreative intellettualmente stimolanti in tutto il ciclo di vita, corsi di potenziamento cognitivo strutturati nella mezza e tarda età ed interventi di riabilitazione in caso di insorgenza di iniziali difficoltà cognitive.


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Vai all'articolo originale Livingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., ... & Mukadam, N. (2020). Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, 396(10248), 413-446. 


BIBLIOGRAFIA INTEGRATIVA:

Chan, D., Shafto, M., Kievit, R., Matthews, F., Spink, M., Valenzuela, M., & Henson, R. N. (2018). Lifestyle activities in mid-life contribute to cognitive reserve in late-life, independent of education, occupation, and late-life activities. Neurobiology of aging, 70, 180-183.

Butler, M., McCreedy, E., Nelson, V. A., Desai, P., Ratner, E., Fink, H. A., ... & Kane, R. L. (2018). Does cognitive training prevent cognitive decline? A systematic review. Annals of internal medicine, 168(1), 63-68.

Gates, N. J., Rutjes, A. W., Di Nisio, M., Karim, S., Chong, L. Y., March, E., ... & Vernooij, R. W. (2019). Computerised cognitive training for maintaining cognitive function in cognitively healthy people in midlife. Cochrane database of systematic reviews, (3).

Grotz, C., Meillon, C., Amieva, H., Stern, Y., Dartigues, J. F., Adam, S., & Letenneur, L. (2016). Why is later age at retirement beneficial for cognition? Results from a French population-based study. The journal of nutrition, health & aging, 20(5), 514-519.

Hill, N. T., Mowszowski, L., Naismith, S. L., Chadwick, V. L., Valenzuela, M., & Lampit, A. (2017). Computerized cognitive training in older adults with mild cognitive impairment or dementia: a systematic review and meta-analysis. American Journal of Psychiatry, 174(4), 329-340.

Kajitani, S., Sakata, K. E. I., & McKenzie, C. (2017). Occupation, retirement and cognitive functioning. Ageing & Society, 37(8), 1568-1596.

Kane, R. L., Butler, M., Fink, H. A., Brasure, M., Davila, H., Desai, P., ... & Barclay, T. (2017). Interventions to prevent age-related cognitive decline, mild cognitive impairment, and clinical Alzheimer’s-type dementia.

Kremen, W. S., Beck, A., Elman, J. A., Gustavson, D. E., Reynolds, C. A., Tu, X. M., ... & Franz, C. E. (2019). Influence of young adult cognitive ability and additional education on later-life cognition. Proceedings of the National Academy of Sciences, 116(6), 2021-2026.

Lee, A. T., Richards, M., Chan, W. C., Chiu, H. F., Lee, R. S., & Lam, L. C. (2018). Association of daily intellectual activities with lower risk of incident dementia among older Chinese adults. JAMA psychiatry, 75(7), 697-703.

Livingston, G., Sommerlad, A., Orgeta, V., Costafreda, S. G., Huntley, J., Ames, D., ... & Mukadam, N. (2017). Dementia prevention, intervention, and care. The Lancet, 390(10113), 2673-2734.

Rovner, B. W., Casten, R. J., Hegel, M. T., & Leiby, B. (2018). Preventing cognitive decline in black individuals with mild cognitive impairment: a randomized clinical trial. JAMA neurology, 75(12), 1487-1493

Staff, R. T., Hogan, M. J., Williams, D. S., & Whalley, L. J. (2018). Intellectual engagement and cognitive ability in later life (the “use it or lose it” conjecture): longitudinal, prospective study. bmj, 363.

Tagliabue, C. F., Guzzetti, S., Gualco, G., Boccolieri, G., Boccolieri, A., Smith, S., & Daini, R. (2018). A group study on the effects of a short multi-domain cognitive training in healthy elderly Italian people. BMC geriatrics, 18(1), 1-11.

Xue, Baowen, Dorina Cadar, Maria Fleischmann, Stephen Stansfeld, Ewan Carr, Mika Kivimäki, Anne McMunn, and Jenny Head. "Effect of retirement on cognitive function: the Whitehall II cohort study." European journal of epidemiology 33, no. 10 (2018): 989-1001.

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Esercizio fisico e cognizione

24 agosto 2022, a cura di Chiara Tagliabue

Procediamo con l’analisi dei 12 fattori di rischio potenzialmente modificabili, individuati nel 2020 dalla Commissione Lancet, che potrebbero prevenire o ritardare l’insorgenza di demenza.


ATTIVITÀ FISICA E INCIDENZA DI DEMENZA

Premessa principale è che le modalità di attività fisica sono diverse a seconda di molteplici fattori, quali, ad esempio, l’età, il sesso, ma anche la classe sociale e la cultura di appartenenza. Per questo motivo, gli studi che vanno ad indagare gli effetti dell’attività fisica sono spesso complessi.

Diversi studi osservazionali longitudinali (studi in cui i partecipanti vengono osservati nel tempo, per mesi o anni) sembrano però convergere nello stabilire che l’esercizio fisico è associato ad un ridotto rischio di demenza.

Lo studio HUNT, pubblicato nel 2018, ha evidenziato come, negli adulti di mezza età, svolgere settimanalmente attività fisica di livello moderato-intenso fosse associato ad una riduzione del rischio di demenza durante un periodo di osservazione di 25 anni.

A conclusioni simili sono giunti altri due studi osservazionali di più lunga durata. Nel Whitehall Study, pubblicato nel 2017 e durato 28 anni, i partecipanti che dichiaravano di svolgere attività fisica moderata-intensa per almeno 2 ore mezza a settimana mostravano una riduzione del rischio di demenza per un periodo di almeno 10 anni. Uno studio svedese che ha seguito 191 donne di mezza età per addirittura 44 anni ha invece evidenziato come il livello di fitness fisico fosse associato alla successiva incidenza di demenza; nello specifico, il 32% delle donne che erano caratterizzate da bassi livelli di fitness fisico hanno in seguito sviluppato demenza, contro il 25% di quelle con un livello di fitness medio e solo il 5% di quelle con alti livelli di fitness.


TRAINING DI ATTIVITÀ FISICA ED EFFETTI SULLA COGNIZIONE

Possiamo utilizzare l’attività fisica per potenziare e/o sostenere il funzionamento cognitivo? Ad oggi i risultati, benché incoraggianti, non sono ancora conclusivi.

Una revisione del 2018 degli studi presenti in letteratura ha indicato miglioramenti a livello cognitivo nei gruppi di partecipanti (età media: 50 anni) che svolgevano, per almeno 45-60 minuti a sessione, training di resistenza moderati-intensi e training con esercizi di tipo aerobico. In individui con diagnosi di decadimento cognitivo lieve, un’altra revisione sempre del 2018 ha evidenziato miglioramenti cognitivi nei gruppi che svolgevano attività fisica, soprattutto di tipo aerobico

Sebbene il legame tra training fisici e cognizione sia da indagare ulteriormente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stabilito che ci sono evidenze a favore di piccoli, ma benefici, effetti dell’attività fisica sulla cognizione negli individui senza patologia, e possibili effetti benefici a livello cognitivo negli individui con decadimento cognitivo lieve, soprattutto dovuti ad esercizi fisici di tipo aerobico.


COSA ACCADE NEL CERVELLO?

Quali cambiamenti porta a livello cerebrale svolgere attività fisica? Per rispondere a questa domanda facciamo riferimento a studi condotti su animali, dove è possibile osservare direttamente i cambiamenti a livello cellulare e molecolare.

L’esercizio fisico di tipo aerobico sembra portare un aumento nella proliferazione (neurogenesi) e nella sopravvivenza delle cellule (neuroni) nell’ippocampo (un’area situata nella parte più interna del cervello). I miglioramenti cognitivi che si osservano a seguito di un training di attività fisica potrebbero essere dovuti alla creazione di queste nuove cellule, che possono facilitare l’apprendimento e la memoria. Tale processo potrebbe essere particolarmente importante nella Malattia di Alzheimer, che è caratterizzata da una marcata riduzione di neuroni proprio a livello dell’ippocampo. Tale riduzione potrebbe infatti essere compensata, almeno in parte, da un potenziamento della neurogenesi attraverso l’esercizio fisico.


Per concludere questa digressione sull’esercizio fisico quale fattore di rischio modificabile nella prevenzione della demenza, è bene sottolineare come le persone possano interrompere l’attività fisica a causa dei prodromi di una demenza. In questi casi l’inattività può dunque configurarsi sia come conseguenza, sia come causa di demenza. Ne consegue come si dovrebbe continuare ad incentivare l’attività fisica in tutte le fasi della vita, soprattutto durante quei periodi in cui il rischio di sviluppare demenza è maggiore.


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BIBLIOGRAFIA INTEGRATIVA:
Zotcheva E, Bergh S, Selbak G, et al. Midlife physical activity, psychological distress, and dementia risk: the HUNT study. J Alzheimers Dis 2018; 66: 825–33.

Sabia S, Dugravot A, Dartigues JF, et al. Physical activity, cognitive decline, and risk of dementia: 28 year follow-up of Whitehall II cohort study. BMJ 2017; 357: j2709.

Horder H, Johansson L, Guo X, et al. Midlife cardiovascular fitness and dementia: a 44-year longitudinal population study in women. Neurology 2018; 90: e1298–305.

Northey JM, Cherbuin N, Pumpa KL, Smee DJ, Rattray B. Exercise interventions for cognitive function in adults older than 50: a systematic review with meta-analysis. Br J Sports Med 2018; 52: 154–60.

Song D, Yu DSF, Li PWC, Lei Y. The effectiveness of physical exercise on cognitive and psychological outcomes in individuals with mild cognitive impairment: a systematic review and metaanalysis. Int J Nurs Stud 2018; 79: 155–64.

WHO. Risk reduction of cognitive decline and dementia: WHO guidelines. Geneva: World Health Organization, 2019.

Hillman, C., Erickson, K. & Kramer, A. Be smart, exercise your heart: exercise effects on brain and cognition. Nat Rev Neurosci 9, 58–65 (2008).

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Fumo e demenza: c'è una correlazione?

07 luglio 2022, a cura di Giulia Gualco

In questo articolo proseguiamo l'analisi di un altro dei 12 FATTORI DI RISCHIO indicato nel 2020 dalla Commissione Lancet nella prevenzione, l'intervento e la cura della demenza: IL FUMO.


FUMO ATTIVO E DEMENZA
Il fumo è un fattore di rischio consolidato per lo sviluppo di demenza: i fumatori sono infatti più a rischio di sviluppare una demenza rispetto ai non fumatori. Numerosi studi presenti in letteratura hanno riportato un'associazione positiva tra l'abitudine tabagica e l'aumentato rischio di sviluppare tutti i tipi di demenza, inclusa la malattia di Alzheimer. È stato infatti evidenziato come il fumo, oltre che rappresentare un fattore di rischio cerebro-vascolare e di ictus, possa anche accelerare il processo di atrofia cerebrale e la formazione di lesioni nella sostanza bianca, spesso presenti nei pazienti affetti da patologie dementigene. In un campione di 50.000 uomini di età superiore ai 60 anni, per coloro che hanno smesso di fumare da più di 4 anni, rispetto a chi ha continuato a fumare, si è assistito ad una riduzione del rischio di sviluppare una forma di demenza negli 8 anni successivi.


Smettere di fumare, anche in età avanzata, riduce pertanto il rischio di sviluppare una demenza.
Tuttavia, è bene sottolineare come l'associazione tra fumo e demenza potrebbe essere ancora più forte poiché alcuni dubbi ed incertezze sono stati avanzati dai ricercatori, in quanto i fumatori presentano un rischio maggiore di morire anche a causa di altre malattie, prima dell'età in cui potrebbero sviluppare un patologia dementigena.

 

FUMO PASSIVO E DEMENZA

Il fumo "passivo" è quello che viene inalato involontariamente dalle persone che si trovano a contatto con uno o più fumatori "attivi". Nel mondo, si stima che il 35% degli adulti non fumatori e il 40% dei bambini siano esposti al fumo passivo. Nonostante la letteratura relativa all'associazione tra esposizione al fumo passivo e deficit cognitivo nei pazienti anziani sia ancora scarsa vi sono sempre maggiori evidenze che indicano come anche il fumo passivo, così come quello attivo, possa incrementare il rischio di demenza negli anziani non fumatori.

Uno studio del 2012 condotto in Cina su 2692 non fumatori di 60 anni ha infatti dimostrato che il rischio di sviluppare demenza e malattia di Alzheimer è maggiore se associato ad un'aumentata esposizione al fumo passivo.
Un'altra ricerca condotta sempre in Cina, nel 2018, ha evidenziato che nelle donne di età compresa tra 55 e 64 anni, l'esposizione al fumo passivo è associata ad un maggiore deterioramento della memoria, e il rischio aumenta all'aumentare della durata dell'esposizione.
Infine, nel 2021 è stato condotto un interessante studio longitudinale volto ad indagare l'associazione tra esposizione al fumo passivo in età infantile e giovanile e lo sviluppo in età avanzata di demenza, malattia di Alzheimer e ictus.
Sono stati presi in esame:

A distanza di 31 anni, 239 soggetti (8%) hanno sviluppato una demenza, tra cui 103 demenza di Alzheimer, e ci sono stati 315 casi di ictus. Come visibile nella tabella sottostante, lo studio ha dimostrato che l'esposizione nella prima infanzia a fumo passivo era significativamente associato ad un aumento del rischi di sviluppare demenza, malattia di Alzheimer e ictus.


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BIBLIOGRAFIA INTEGRATIVA:
Chen, R. (2012). Association of environmental tobacco smoke with dementia and Alzheimer’s disease among never smokers. Alzheimer's & Dementia, 8(6), 590-595.

Orsito, G., Venezia, A., Turi, V., Fulvio, F., Tria, D., & Manca, C. (2010). Smoking, dementia and cognitive decline in hospitalized elderly patients. GIORNALE DI GERONTOLOGIA, 58(5), 283-289.

 

Zhou, S., & Wang, K. (2021). Childhood secondhand smoke exposure and risk of dementia, Alzheimer’s disease and stroke in adulthood: A prospective cohort study. The Journal of Prevention of Alzheimer's Disease, 8(3), 345-350.

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Gerontecnologia: potenzialità e limiti del progresso tecnologico nel supporto all’anziano.

16 giugno 2022, a cura di Roberto Dominici

La pandemia ha contribuito in maniera significativa all’utilizzo sperimentale dei robot e della domotica nell’assistenza agli anziani fragili o non autosufficienti. Un campo di ricerca in rapida evoluzione che prende il nome di gerontecnologia, neologismo nato dalla fusione delle parole “gerontologia” e “tecnologia”. Questi approcci, ancora poco diffusi nella pratica assistenziale quotidiana, stanno mostrando risultati promettenti sotto diversi punti di vista.


Le opportunità più interessanti derivano dal cosiddetto Internet of Things, cioè dalla possibilità di connettere e far comunicare tra di loro dispositivi e oggetti dell’ambiente domestico, per migliorare la salute, l’autonomia e la qualità di vita delle persone anziane o diversamente abili. Soluzioni tecnologiche studiate ad hoc per gli anziani possono aumentare l’aderenza terapeutica, la percezione di sicurezza e l’autocontrollo. In uno studio condotto dal centro Eurac Research di Bolzano, 36 individui altoatesini di età compresa fra i 65 e i 94 anni hanno testato per un anno il funzionamento di un kit domotico composto da vari oggetti connessi in rete: un tablet, un orologio di emergenza e sensori posizionati in punti strategici della casa. Questo sistema integrato si è rivelato utile per monitorare le abitudini dell’anziano, controllare i suoi parametri vitali, agevolarlo nelle attività quotidiane e allertare i soccorsi in caso di emergenza. Se, ad esempio, una persona fa abitualmente colazione tra le sette e le otto di mattina e alle nove non ha ancora aperto il frigorifero, il sensore attaccato al frigo invia un messaggio al suo tablet per accertarsi che non sia successo nulla. Se la persona non risponde entro 20 minuti il sistema invia un alert ad un parente o a un caregiver, in modo che qualcuno possa sincerarsi delle sue condizioni. Altri sensori comandano l’accensione automatica della luce quando l’anziano si alza di notte o l’emissione di un segnale acustico quando una pentola viene dimenticata sul fornello acceso.


Un altro esperimento dell’Università tecnologica Nayang di Singapore ha evidenziato che i robot umanoidi possono rivelarsi molto utili per rispondere ai bisogni emotivi e sociali delle persone anziane. Per qualche giorno il robot di compagnia Nadine, uno dei più “umani” al mondo per fattezze, capacità interattive e comportamento, ha intrattenuto e divertito 29 ospiti over 60 della casa di cura Bright Hill Evergreen di Singapore. In particolare, a Nadine è stato affidato il compito di gestire le partite di bingo. Tutte le sessioni di gioco condotte dal robot sono state filmate, in modo da confrontare le reazioni, le espressioni e i comportamenti dei partecipanti con quelli registrati mentre la stessa attività veniva condotta da esseri umani. Ne è emerso che gli anziani si divertivano di più in compagnia del robot: il loro volto appariva più felice e sorridente, la loro attenzione era più alta e si distraevano meno, evitando di rivolgersi al personale per qualsiasi necessità. Il successo di Nadine dipende principalmente dal suo aspetto umano e dalla capacità di leggere i gesti e la mimica facciale, caratteristiche fondamentali per agevolare l’interazione con gli anziani, in genere poco avvezzi alla tecnologia. Lo sviluppo di sistemi tecnologici in grado di compensare i deficit fisici, cognitivi e comportamentali delle persone con demenza potrebbe rappresentare una strategia assistenziale particolarmente vincente. Oltre ai benefici per il paziente, che può rendersi più autonomo e continuare a vivere nella propria casa, il vantaggio è quello di alleggerire il carico fisico e psicologico dei caregiver informali nel gestire una malattia cronica, disabilitante e progressiva sempre più diffusa. Tecnologie assistive che si stanno dimostrando efficaci in questo settore sono, ancora una volta, i robot, in particolare quelli preposti alla riabilitazione, al controllo remoto, alla valutazione sanitaria e al supporto psico-sociale. Tra i robot semi-umanoidi più utilizzati a questo scopo c’è Pepper, che da ottobre 2020 si trova all’IRCSS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo per assistere gli anziani affetti da declino cognitivo e difficoltà di movimento. Uno dei più curiosi è Paro, un “cucciolo” di foca progettato per fornire sostegno emotivo e sociale alle persone con demenza senile. Uno studio suggerisce che gli interventi clinico-assistenziali con Paro migliorano la qualità della vita e l’interazione sociale e riducono l’uso di farmaci psicotropi e antidolorifici. In generale i robot con sembianze umane vengono impiegati soprattutto nei compiti dell’assistenza e della comunicazione, mentre quelli con sembianze animali mostrano maggiore efficacia sullo stato emotivo.

Tutte queste esperienze aprono scenari suggestivi per le molteplici applicazioni della telemedicina, della robotica e della domotica nel migliorare la salute degli anziani, contrastare l’isolamento sociale e rallentare il decadimento cognitivo. Si tratta però di iniziative sperimentali dalle quali non possiamo ancora trarre conclusioni definitive e generali. Mancano dati sufficienti per valutare l’impatto di robot e assistenti virtuali sulla vita degli anziani, soprattutto in ambito domiciliare. La qualità degli studi effettuati sinora è stata messa in discussione, anche per la difficoltà di coinvolgere direttamente le persone con demenza o con disabilità nella progettazione di macchine centrate sui bisogni e le aspettative dell’utente. Permangono, inoltre, difficoltà di natura etica e legale sul fronte della privacy, del trattamento dei dati personali e del consenso informato, oltre ai problemi pratici derivanti dalla scarsa digitalizzazione dei cittadini over 60.


È lecito pensare che in futuro il progresso tecnologico e informatico ci renderà capaci di andare ben oltre la televisita (il consulto medico a distanza) e il tracciamento dello stato di salute tramite i dispositivi medici indossabili, ma l’ipotesi di demandare interamente ad un robot o un assistente virtuale i compiti clinici e assistenziali non sembra ancora un’opzione plausibile né tantomeno auspicabile.

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Perdita di udito e demenza: quale correlazione?

18 maggio 2022, a cura di Stella Dell'Era

Negli articoli precedenti abbiamo parlato del fattori di rischio per l'insorgenza di demenza, ossia quei fattori la cui presenza aumenta la probabilità di sviluppare la malattia senza di per sé causarla. In questo articolo analizzeremo uno dei 12 FATTORI DI RISCHIO indicati nel 2020 dalla Commissione Lancet sulla prevenzione, l'intervento e la cura della demenza: le problematiche di udito. 

La PERDITA DELL'UDITO è il deficit sensoriale più frequente nella popolazione con notevoli conseguenze sociali per gli individui che ne sono affetti. La prevalenza di ipoacusia raddoppia ad ogni decennio di età tanto che quasi 2/3 della popolazione over 70 soffre di una perdita significativa dell'udito che impatta sulle sua abilità di comunicazione nella vita quotidiana.

Il riconoscimento della perdita dell'udito come FATTORE DI RISCHIO per la demenza è relativamente recente ma con un impatto potenzialmente grandissimo sulla salute pubblica: scoprire i meccanismi che collegano udito e cognizione potrebbe portare ad interventi precoci in grado di prevenire o ritardare l'insorgenza dei sintomi della demenza.

L'ipoacusia sembra essere un fattore di rischio correlato allo sviluppo di demenza soprattutto per quanto riguarda L'IPOACUSIA PERIFERICA che inficia la capacità di comprendere il parlato in presenza di rumore di fondo.

Sono stati avanzati tre tipi di ipotesi sulle modalità con cui l'ipoacusia periferica si collega alla cognizione e, più nello specifico, allo sviluppo della patologia dementigena:





Per scoprire le correlazioni degli altri fattori di rischio con la demenza, continuate a seguire la nostra newsletter

Vai all'articolo originale Livingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., ... & Mukadam, N. (2020). Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, 396(10248), 413-446. 


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Sono state avanzate tre ipotesi per spiegare questa correlazione:

 

Prevenzione primaria e demenza: quali sono i fattori di rischio modificabili?

6 aprile 2022, a cura di Sabrina Guzzetti

Nell'articolo dello scorso mese abbiamo accennato alla PREVENZIONE PRIMARIA della demenza.


Tra i principali fattori di rischio per l’insorgenza di demenza spicca senza alcun dubbio l’ETÀ. Come tutti i fattori di rischio, si tratta di un aspetto che aumenta la probabilità di sviluppare la malattia, senza di per sé causarla necessariamente, tanto che non tutte le persone anziane sviluppano prima o poi una demenza.  


L’allungamento dell’aspettativa di vita, così come  il progressivo incremento della popolazione mondiale, sta portando ad un AUMENTO DEI CASI complessivi di demenza. Nel mondo sono circa 50 milioni, ad oggi, le persone affette da demenza e questo numero ci si aspetta che possa raggiungere i 152 milioni nel 2050. Fino a pochi anni fa, era opinione comune nel mondo scientifico che il progressivo invecchiamento della popolazione che caratterizza i paesi come l’Italia avrebbe determinato, coerentemente al trend mondiale appena descritto, un deciso aumento della prevalenza di demenza. Se è vero, in effetti, che il numero complessivo di casi stia progressivamente aumentando, quello a cui abbiamo parallelamente assistito negli ultimissimi anni è stata una  RIDUZIONE DI INCIDENZA ETÀ-SPECIFICA delle demenze. Cosa significa? Che l’incidenza della demenza in gruppi di individui della stessa età appartenenti a coorti recenti, confrontate a coorti delle decadi precedenti, è in riduzione. Perché? La risposta è da cercare nei miglioramenti occorsi in termini di scolarizzazione, nutrizione, assistenza sanitaria e stili di vita che ha interessato i paesi ad alto reddito come il nostro.


Solide evidenze scientifiche supportano ormai con decisione il ruolo esercitato nello sviluppo della demenza dei 9 FATTORI DI RISCHIO indicati nel 2017 dalla Commissione Lancet sulla prevenzione, l’intervento e la cura della demenza: ridotta scolarizzazione, ipertensione, problematiche di udito, fumo, obesità, depressione, inattività fisica, diabete e ridotti contatti sociali. Si tratta di fattori tutti potenzialmente MODIFICABILI, attraverso il ricorso ad interventi di carattere medico o, più semplicemente, tramite l’introduzione di cambiamenti duraturi nel proprio stile di vita e nella propria quotidianità. A questi fattori di rischio la Commissione Lancet ha aggiunto nel 2020 l’eccessivo consumo di alcol, il trauma cranico e l’inquinamento dell’aria. Questi 12 FATTORI sembra che possano essere relati a ben il 40% delle demenze a livello mondiale (v. figura sotto), che conseguentemente potrebbero essere prevenute o almeno ritardate nella loro insorgenza. 


Alcuni di questi 12 fattori di rischio esercitano il loro effetto nella giovane età (<45 anni), come ad esempio la scolarità, che influenza la nostra famosa riserva cognitiva (di cui senz’altro parleremo più nel dettaglio in articoli successivi), mentre altri sono più attivi nella mezza età (45-65 anni) e nella tarda età(>65 anni), come, rispettivamente, l’ipertensione e il fumo, che possono contribuire ad innescare parte dei processi neuropatologici che portano alla demenza. Quindi, sebbene come spesso accade, chi ben comincia è a metà dell’opera, NON È MAI TROPPO TARDI per assumere stili di vita protettivi contro la demenza. Mantenere la pressione sistolica (la cosiddetta massima) pari o al di sotto di 130 Hg, smettere di fumare e usare l’apparecchio acustico in caso di calo di udito sono tutte azioni concrete in grado di ridurre il proprio di rischio di sviluppare una demenza. Anche fare esercizio fisico è molto importante, probabilmente perché in grado di ridurre a propria volta le problematiche di obesità e di diabete e, più in generale, il rischio cardiovascolare. Ciascuno di noi, insomma, ha un enorme potenziale nel ridurre il proprio di rischio di sviluppare una demenza, sebbene cambiare il proprio STILE DI VITA non sia certamente un’impresa facile.


Se volete sapere di più in merito a ciascuno di questi 12 fattori di rischio, continuate a seguire la nostra newsletter! 


Vai all'articolo originale Livingston, G., Huntley, J., Sommerlad, A., Ames, D., Ballard, C., Banerjee, S., ... & Mukadam, N. (2020). Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, 396(10248), 413-446. 

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A  proposito di prevenzione nelle demenze

15 marzo 2022, a cura di Sabrina Guzzetti

La DEMENZA è una sindrome clinica progressivamente ingravescente che colpisce il cervello e che compromette le funzioni cognitive, l’umore,  il comportamento e l’autonomia della persona. La Malattia di Alzheimer è la più nota e tra le più diffuse forme di demenza (50 - 60% casi), ma non è l’unica. 


La PREVENZIONE è l'insieme di azioni finalizzate a ridurre il rischio, ossia la probabilità, che si verifichino eventi non desiderati.
In ambito medico si distinguono tre livelli di prevenzione: primaria, secondaria e terziaria.





La parola CURARE [dal lat. cūrare,”prendersi cura”] significa occuparsi di o attendere con premura e diligenza a una cosa o a una persona. Ogni forma di demenza, ad ogni suo stadio di malattia, viene oggi sottoposta a qualche forma di trattamento, sia esso di tipo farmacologico o non farmacologico.


La parola GUARIRE [dal germ. Warjan, “difendere”] significa far regredire la malattia fino ad una guarigione più o meno completa dell’ammalato. La demenza è una malattia cronica che, nonostante possa essere sottoponibile a percorsi di trattamento indirizzati ad alleviarne i sintomi, non è quasi mai (dipende dalla malattia specifica che l'ha determinata) né guaribile, né reversibile.
La malattia di Alzheimer non è ad oggi guaribile.

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La demenza: